io dico “rapsodico”, e quella dice “ripetitivo”, io dico “miracoloso impasto immaginifico e linguistico” e quella dice scrittura “avviluppata”, “poco scorrevole”. com’era quella cosa di gadda, nell’adalgisa, credo, delle zucche, del livello delle zucche delle manicure, delle pettinatrici, delle merciaie?
ecco, quella cosa lì. non ho capito bene dove andrà a parare emanuele trevi, con il suo lupo, ma se è vero che scrivere di letteratura è arrivato a livelli di stucchevolezza, di iniziazione, quasi, esagerati, è anche vero che di letteratura parlano un po’ tutti a caso, con un linguaggio di ogni giorno per una cosa che non è per tutti e per ogni giorno: anche se sarebbe bello lo fosse, per tutti e per tutti i giorni. non mi piace la critica che si parla addosso compiaciuta, che ama ascoltarsi e nel contempo mira a passare, spacciando forme impersonali, per assoluta. mi piace chi dice quello che pensa: e però anche nel dire quello che si pensa, in prima persona, c’è tuttavia un modo, che non può essere quello della manicure. che non si creda che, mettendo di mezzo il sentimento, dopo decenni di linguaggio criptico, per adepti, iniziatico, settario, conventicolare, si passi “finalmente” ad una (più) giusta prospettiva. l’emozione, lo sguardo “primitivo” all’opera letteraria c’è anche quando quello sguardo è esercitato, colto, curato. poi scatta il filtro: e quel filtro aiuta a dire se non “il” giusto, qualcosa di molto vicino, con una lingua adeguata, consona all’oggetto. una lingua per cui una ripetizione è semmai un refrain, una rapsodia, un’espressione epicamente formulaica, perfettamente inscritti in uno scopo (se sono esteticamente ed eticamente motivati).
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