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Archive for the ‘letteratura con la para’ Category

Ho già affrontato il tema degli editori (e non solo) che non pagano in alcuni articoli, ma mi rendo sempre più conto che se da una parte c’è qualcuno che non paga, dall’altra c’è qualcuno che non si fa pagare.
Forse è venuto il momento di discuterne un pochino?
Negli ultimi mesi diverse persone mi hanno raccontato di editori che non pagano, che presentano contratti assurdi e in troppi mi pare siate in qualche modo rassegnati a questa situazione.
Come ho già fatto in altre occasioni, provo a rispondere ad alcune affermazioni raccolte qua e là per spiegarvi i motivi per cui non è giusto lavorare gratis.

segue:

http://www.frizzifrizzi.it/2013/12/13/in-fondo-non-sei-nessuno-perche-dovremmo-pagarti/

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è saggia, innegabilmente. vede cose che io umana.
non esiste critica letteraria, dice: esiste pubblicità. e, dice, la pubblicità è solo positiva, da cui deriva, dice, che non esiste il minimo spazio per la minima critica: nemmeno fondata, anzi, dice, soprattutto se fondata. per cui, dice, si sta, come d’autunno, d’inverno e in primavera, nel cortile della scuola, a giocare, a spingersi in malo modo, ma si fa per scherzo, a subire il bulletto, a subire il bulletto nano, genitori separati, poverino bisogna capirlo: che però tira calci e gomitate. si sta nei rapporti umani, dice, come nel cortile della scuola: non è cambiato niente, che tu abbia venti o trenta o cinquanta anni. tutti a giocare, facendo finta di far davvero, come nel cortile della scuola, dice.

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poetesse

mi chiedo perché certe poetesse, di quelle che sono perfettamente calate nella parte, molto comprese nel loro profetico ruolo, direi epifanico (anche nel senso befanesco del termine), abbiano tutto un corredo di particolari movenze, toni di voce, piccoli scatti nervosi, sdilinquimenti, occhi trasognati. forse bisogna fare un corso, che so, tipo le indossatrici: queste le fanno camminare sui tacchi con i libri in testa, forse che per prendere la postura esatta da poetessa vera, engagée, ti mandano al marché aux pouces? ti fanno camminare con pianelle nonnesche? ti insegnano a tenere la testa leggermente inclinata di lato? ti fanno fare esercizi di voce graffiando, strascicando, biascicando, accentuando l’accento – preferibilmente e terribilmente veneto? -. non so se ho nemmeno un vero accento veneto, mi tocca partire da molto indietro, accidenti. ormai è tardi. [il modello merini ho detto di no, non lo voglio. ma se ti dico di no. no]

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ho vissuto tanti anni senza sapere niente di goliarda sapienza e credo che continuerò così: tanto, in rete, c’è pieno di entusiasti estimatori alla moda che mi mettono certi bei pezzi che è come leggerla. non mi piace abbastanza da cercarne i volumi anche perché le mode, essendo sorpassata, non mi pertengono. dal centinaio di righe che avrò letto, bastevoli a formulare un giudizio webbico, direi che può essere collocata tra gli autori che reputo neo-dannunziani. e dunque, avvitando il post alla proposizione iniziale, ne faccio volentieri a meno.

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ci sono libri che ammettere di aver letto imbarazzerebbe per la loro pochezza e allora certuni dicono ma che scherzi? non li leggo manco morto/a. ci sono libri sui quali tacere una critica goliardica sarebbe come ammettere di gradirli. e tuttavia c’è chi perde tempo a citare, e giudicare, sempre quei tre quattro poveracci, campioni di incassi, e di vacuità a prescindere, non avendoli letti. al contrario ci sono libri che ammettere di non averli letti ti lascerebbe indietro: e a nessuno, in nessun ambito, oggi, piace restare indietro. cosicché si vede l’esatto contrario: un citazionismo disperato sulla stessa inattendibile base di pseudo-lettura (dieci pagine a scrocco alla feltrinelli, comodamente seduti). se facciamo un calcolo approssimativo dei tempi – seri – perché una lettura possa effettuarsi, c’è gente che matusalemme le spiccia casa. l’ipotesi di parlare di ciò che si conosce non la sfiora: e noi appunto abbiamo all’uopo la rete.

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quando la poesia genera piacere profondo è davvero poesia. per profondo intendo tutta quella messa in moto di richiami, riconoscimenti, appelli all’interiorità, a ciò che si è letto, a ciò che si è sperimentato; richiami musicali, echi sonori, arpeggi, trilli, vocalizzi, acuti, bassi profondi. quando non produce questo e si incontra invece quasi un implicito vanto del poeta al disturbo, alla cacofonia superba (la cacofonia “poetica”, non sempre, può essere e anzi è eufonia), quel volerci urtare che ha fatto storia (ma ora basta, però), quando incontriamo l’eccesso di intellettualismo spiattellato (quella specie di “guarda come sono bravo”), l’emozione profonda va a nascondersi nello stanzino e si rifiuta di uscire. al suo posto si presentano lo sforzo per capire, la volontà di capire e trovare un senso, la paura di non essere abbastanza intelligenti, se c’è qualcuno nei paraggi; se il poeta è à la page subentra la piaggeria. e il gioco è fatto.

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A proposito di versi sciatti, riflettevo su quanto buttato giù ultimamente: ho fatto un bel po’ di strada dalla visionarietà delle Conversazioni, dal risentimento del Piccolo alfabeto. Ogni tanto l’anima mia risentita si rivolge ad un malumore meno puntuto, come disperso e dilatato o al freddo percepito, causato dalla baroccaggine del mondo, dalla sua accelerata entropia. La lingua, sempre ancorata al concreto che nasce dalla terra, che scende a raspare negli strati più bassi del quotidiano, può apparire (anzi, appare, decisamente) sciatta, indigesta: e rozza, e impoetica, aggiungo. E’ un destino che era segnato da sempre: poetare spoetando. Non so se c’è o c’è mai stato qualcosa di bello in quello che scrivo: mi piace, mi soddisfa abbastanza, credo di saper leggere a sufficienza: ma è roba mia e pertanto, se da un lato l’autovalutazione è importante per non mettere per strada canzonette mal conciate, dall’altro il giudizio di bello e buono non mi spetta, né, più in generale, è quello che realmente mi interessa in tutto questo trafficume senile che mi tiene a volte sveglia ad accordare versi sul ritmo diseguale di un acciottolìo interiore (i cocci di una vita fanno gran romore): ed è fatica persa, poiché il sonno che segue cancella per lo più le magiche ispirazioni. Insomma, non so se c’è o non c’è la kalocagathia a cui, fosse per me, mirerei: passando per una testarda e terragna materialità che si leva a volo puntando all’assoluto, o che scava verso territori rocciosi e malagevoli, sotterranei: o che schizza di lato, verso un qualche altrove. So però che certi accoppiamenti non giudiziosi che vanno per la maggiore, in cui l’ossimoro, che per me resta un oggetto poetico da trattare con estrema cautela, è il basso continuo, mentre gli arditismi più impertinenti accostano verbi a complementi oggetto impossibili, sostantivi ad aggettivi da far rabbrividire un futurista, un Novissimo: ecco quelle cose, no, con buona pace della sciatteria vera o presunta. Che non è ricerca, si sappia [travestita da contadinella]: è’ proprio che scrivo così: così male.

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se si riformulasse una battaglia classico-romantica, starei con i classicisti. visti sulla distanza sono classicisti persino i barocchi e i neo-barocchi, quelli che preferisco, tutti coloro che credono nella parola, nella sua impossibile capacità di dire: e pertanto si macerano nel cercarne invano il senso, la compiutezza nell’incompiuto. niente è più classicista dell’affermazione gaddiana “barocco è il mondo”. a noi ci hanno rovinato certi romantici che pretendevano di raggiungere l’ineffabile con l’ineffabile, e ci rovinano certi ruvidoni d’oggi che mirano all’essenziale con l’avarizia linguistica, l’autismo sintattico, il lessico plastificato. l’essenziale si raggiunge con la lingua grassa e bisunta, sudaticcia, roboante, tautologica, pleonastica, sovradimensionata: in andata. poi, di ritorno, asciugando, estromettendo, sgrassando, come un consommé. se parti basso, non arrivi mai. se parti svolazzando, ti schianti. devi andarci con un bastimento carico: quello che non serve, si stiva. le scialuppe sono giusto per il salvataggio: e a volte non bastano a soddisfare.

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la questione non è che siamo diventati “tutti” scrittori: è semmai che tra gli “scrittori” ce n’è che apparterrebbero alla categoria dei “tutti”, con la differenza che – ohi ohi – hanno pubblicato.

appena appena infili sei o sette subordinate, alla manzoni, saldamente tenute in mano, con virgole, punto e virgola, due punti, ti dicono che sei involuta. sfido, nell’imperare della paratassi estrema, del lessico ecolalico, la razionalità dei piani e dei sentieri che si biforcano ordinatamente, pare, al contrario, complicazione: ma la malizia e l’ignoranza sintattica sono negli occhi di chi legge.

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dalla deformazione professionale non si scappa. leggo libri ripuliti da editor(s) (che mi viene in mente, non so perché, visitors) e da correttori di bozze, ma sono tuttavia punteggiati di errori che, un tempo, quando eravamo frequentatori di oratori, avremmo chiamato, sentendoci grandi, “licenze poetiche”: strizzandoci l’occhio. ora questa cosa della licenza poetica è assunta, mi pare, seriamente: della serie che, se leggo e applico le conoscenze linguistiche acquisite in anni e anni di esperienza e di studio assiduo, sarebbe tutto un rosso e un blu: ma e’ mi direbbero “la sciura professoressa”, con aria di compatimento, come se la lingua – che non è quella di gadda, né di pizzuto, né di meneghello, né di parise, né di manganelli, né di vassalli, né di calvino, né di bufalino, financo quella di trevisan ecc. ecc. – fosse qualcosa di adattabile al livello della loro zucca. per prendere congedo dalla lingua, bisogna essere come questi sunnominati, o averne almeno la tempra, il coraggio. la trasgressione altrimenti si trasforma in poraccitudine, senza scampo. che poi cos’è questa storia, chi l’ha messa in giro, che non si deve aggiungere la -d eufonica alla a davanti a vocale? tipo che leggo “a anna”, “a angela”. ma su, eddai.

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