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Archive for the ‘piccolo alfabeto del malumore’ Category

Oggi io sto

qui

in un luogo bellissimo.

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Quello che si vede in superficie

è il resto di un’ustione, la materia

grigia e ingrata di una rinuncia,

di un approccio sghembo alla parola.

Storte le sillabe, storta l’anima

che le ha nutrite figlie prodighe,

che se tornano non ho di che dargli

a mangiare, io sola al sole, a mendicare.

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Le sconfinate possibilità sono un’invenzione

dei filosofi, la libertà un giogo insopportabile,

una tentazione alla grandezza demenziale.

Giorno dopo giorno fatichiamo a raggiungere

noi stessi, sempre un po’ più indietro dell’ultima

tappa, tappando falle, vuoti, colmi di mille

pretese deliranti, scansando l’appuntamento

per esserci, quella prima e ultima volta.

 

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Prendi Buzz Aldrin: alle macchie di Rorschach

rispose sempre farfalle. Io sapevo che potevo dire farfalle

ma sentivo i pugni nello stomaco e nella testa: così

ci ho visto i miei avvoltoi smembrati, figure

dell’oltretomba con artigli, uteri e polmoni

squaternati, sangue che cola da ferite, due

donne goffe ad un tavolino di bar. Ero

quei visceri, ero io, a pezzi, o in due.

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Hanno rinunciato per me alle seduzioni

del demonio: non gliel’ho chiesto io,

pensavo ad altro in quel momento.

La buona educazione, solo quella,

ha fatto il resto: che assumessi  fattezze

umane e mi accollassi una vita perbene

scontando per tempo dell’inferno tutte le torture:

non le gioie, non l’energia e il carnevale.

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Ci sono bugie in forma di sciocchezze

che non arrivo a tanto benché mi sforzi

di carpire i suoni posati sulle lingue

o arrotati sui denti e sui palati.

Quando credo di capire o fingo per pietà

di essere dei loro (pietà di me, non è per dire)

non varco nemmeno la limitata soglia

delle sensazioni: figurati se intendo le ragioni.

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Dacché ho finito di penare sui miei lari,

sarà trascorso un anno, è giunta

quasi l’ora perch’io mi larizzi

confusa tra i pilastri della casa

immobile ridotta a sussurri

consigli per gli acquisti

se mettere o no il sale alla minestra:

un lare di carne, alla finestra.

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Alla maturazione consegue il disincanto

del riconoscere troppe anime mute

occhi che non guardano quando un tempo

era tutto un vocìo e un trafiggersi degli sguardi

un assalto dei corpi da tenere a bada.

Vedere e riconoscere questo sfarsi

esserci arrivata mettere il dito nella piaga

varrà almeno il suono di un applauso?

 

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Neolingua postbabelica: mi chiedo

se sono l’unica a trovar poco da dire

se mi parlano di civiltà elastica

di principi olistici di alterità.

So solo che mi batto e arrabatto

rabbiosa e furibonda perché le mie parole

dicano le cose. Vado a capo, talvolta,

perché non ne vengo a capo, per dar la volta.

 

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E’ un peso talmente insopportabile

quello che di colpo ti assale

alle reni, se volgi il capo a ritroso,

impaziente malfido orfeo!

Per contro t’accorgi della leggerezza

dei tempi accampata su uno sfondo

di parole e atti consunti, inservibili,

che stralunati sbirciano dal magazzino.

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