Non sono una nostalgica del mio passato giovanile: sbuca dappertutto in quelle tre o quattro cosucce che scrivo, ma si slabbra e si scolora, come una maglietta troppe volte lavata, mescolandosi ad altro: non è lui a dominare la scena. Se provo nostalgia è per l’infanzia, per i racconti di altre infanzie, quelle dei miei genitori, dei miei zii che l’hanno attraversata e arricchita. Mi interessa l’epica, se posso dire così.
Ma non è propriamente di questo che intendevo parlare. Mi preme capire come mai, quando leggo qualcosa che esca dalle mani di un quarantenne, io mi senta barbaramente derubata di ricordi, per quanto di importanza limitata, oppure trovi qualche notazione anacronistica rispetto alle diverse realtà che ho attraversato tra l’infanzia e la giovinezza.
Prescindendo (facendo finta che si possa prescindere) da ogni considerazione politica, questi giovanotti, nati tra il ’68 e il ’78 all’incirca, millantano una disperazione circa gli anni ’80, che, sinceramente, non ricordo di aver mai percepito. Quegli anni, in cui avevo tra i ventidue e i trentadue anni, furono teatro di mutamenti repentini sulla scena politica internazionale, degli ultimi barbagli del terrorismo (non che nei decenni successivi non se ne siano avute altre prove), di guerre in medioriente che prepararono il terreno ad altre guerre e tensioni. Ma il collante generale fu un consumismo sfrenato, la proposta massiccia e martellante di stili di vita sul modello americano, che non ci hanno abbandonato più. Nasce la tv commerciale, e ciò basta a comprendere il fenomeno. Ora: o io, che facevo i primi passi da supplente tra studenti di poco più giovani di me, a contatto ogni giorno con una realtà di marziani (quattro cinque anni di distanza costituivano in realtà un’era) fitta di un certo tipo di abbigliamento (paninaro), di uno slang caratteristico (ma ogni epoca ha il suo gergo giovanile), ho visto cose appartenenti ad un universo parallelo, oppure questi giovanotti non me la raccontano giusta. Il loro racconto mescola infanzie da anni Sessanta (in cui non erano nati o erano sul seggiolone) e spesso denigrano gli orrendi anni Settanta come se li avessero vissuti. Dico a questi giovanotti: gli anni Settanta furono brutti, talché io mostro solo qualche ricordo che pervicace emerge, come se non volessi inconsciamente resuscitarli: ma gli anni Ottanta, dio mio! sono stati anni di vuoto pneumatico, l’inizio della corsa allo svuotamento di senso che ci ha condotti fin qui. Non c’è niente di nobile nel vuoto: è vuoto. Di disperati seri c’erano i tossici che provenivano dalle intemperanze del decennio precedente e che se ne andarono alla spicciolata lungo quegli anni: le città si ripulirono, nascondendo il fango, le ferite, la merda sotto il tappeto rosso degli anni Novanta. Poi, a venire ad oggi, è stato un blob continuo, identico, circolare, spiraloide.
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