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Archive for the ‘pocheideemafisse’ Category

ai poeti ostinati

la poesia, come la nostra vita,
non è immortale – oggi non è immortale -,
non ci seguirà nemmeno nella tomba:
e non rende immortale alcunché.
ma non è, sia chiaro, sfogo.
è un mutante, e una mutanda:
da calzare per coprire malamente
la vergogna di essere vivi.

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Ho già affrontato il tema degli editori (e non solo) che non pagano in alcuni articoli, ma mi rendo sempre più conto che se da una parte c’è qualcuno che non paga, dall’altra c’è qualcuno che non si fa pagare.
Forse è venuto il momento di discuterne un pochino?
Negli ultimi mesi diverse persone mi hanno raccontato di editori che non pagano, che presentano contratti assurdi e in troppi mi pare siate in qualche modo rassegnati a questa situazione.
Come ho già fatto in altre occasioni, provo a rispondere ad alcune affermazioni raccolte qua e là per spiegarvi i motivi per cui non è giusto lavorare gratis.

segue:

http://www.frizzifrizzi.it/2013/12/13/in-fondo-non-sei-nessuno-perche-dovremmo-pagarti/

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a mo’ di “pensierino della domenica”, grazie ad Anna Maria Curci

http://poetarumsilva.com/2013/10/20/oskar-pastior-resa-dei-conti/

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che poi quando quell’altro, che non si capiva niente, ha replicato saputello che l’idea che la poesia oggi abbia il destino di essere civile, ma io intendevo “civile”, gli fa orrore, gli avrei menato. se la filosofia è arretrata, toccherà pure a qualcuno spiegare gli inganni della polis: e i poeti lo possono fare: se non si parlano addosso (come i filosofi contemporanei).

e poi, insomma, basta: ogni categoria che assumiamo è posticcia, è un’etichetta di comodo. e il post-moderno è una categoria fluida, ma la modernità ad un certo punto è finita, non ovunque tutta insieme, ma è finita. la sua spinta (finto)propulsiva ha smesso di operare e ci siamo trovati nel caos, nell’azzeramento delle gerarchie e dei valori, in balia del mercato. ennò: che moo dichi a me? tz!

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Non sono una nostalgica del mio passato giovanile: sbuca dappertutto in quelle tre o quattro cosucce che scrivo, ma si slabbra e si scolora, come una maglietta troppe volte lavata, mescolandosi ad altro: non è lui a dominare la scena. Se provo nostalgia è per l’infanzia, per i racconti di altre infanzie, quelle dei miei genitori, dei miei zii che l’hanno attraversata e arricchita. Mi interessa l’epica, se posso dire così.
Ma non è propriamente di questo che intendevo parlare. Mi preme capire come mai, quando leggo qualcosa che esca dalle mani di un quarantenne, io mi senta barbaramente derubata di ricordi, per quanto di importanza limitata, oppure trovi qualche notazione anacronistica rispetto alle diverse realtà che ho attraversato tra l’infanzia e la giovinezza.
Prescindendo (facendo finta che si possa prescindere) da ogni considerazione politica, questi giovanotti, nati tra il ’68 e il ’78 all’incirca, millantano una disperazione circa gli anni ’80, che, sinceramente, non ricordo di aver mai percepito. Quegli anni, in cui avevo tra i ventidue e i trentadue anni, furono teatro di mutamenti repentini sulla scena politica internazionale, degli ultimi barbagli del terrorismo (non che nei decenni successivi non se ne siano avute altre prove), di guerre in medioriente che prepararono il terreno ad altre guerre e tensioni. Ma il collante generale fu un consumismo sfrenato, la proposta massiccia e martellante di stili di vita sul modello americano, che non ci hanno abbandonato più. Nasce la tv commerciale, e ciò basta a comprendere il fenomeno. Ora: o io, che facevo i primi passi da supplente tra studenti di poco più giovani di me, a contatto ogni giorno con una realtà di marziani (quattro cinque anni di distanza costituivano in realtà un’era) fitta di un certo tipo di abbigliamento (paninaro), di uno slang caratteristico (ma ogni epoca ha il suo gergo giovanile), ho visto cose appartenenti ad un universo parallelo, oppure questi giovanotti non me la raccontano giusta. Il loro racconto mescola infanzie da anni Sessanta (in cui non erano nati o erano sul seggiolone) e spesso denigrano gli orrendi anni Settanta come se li avessero vissuti. Dico a questi giovanotti: gli anni Settanta furono brutti, talché io mostro solo qualche ricordo che pervicace emerge, come se non volessi inconsciamente resuscitarli: ma gli anni Ottanta, dio mio! sono stati anni di vuoto pneumatico, l’inizio della corsa allo svuotamento di senso che ci ha condotti fin qui. Non c’è niente di nobile nel vuoto: è vuoto. Di disperati seri c’erano i tossici che provenivano dalle intemperanze del decennio precedente e che se ne andarono alla spicciolata lungo quegli anni: le città si ripulirono, nascondendo il fango, le ferite, la merda sotto il tappeto rosso degli anni Novanta. Poi, a venire ad oggi, è stato un blob continuo, identico, circolare, spiraloide.

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quando al massimo esisteva il correttore di bozze, lo scrittore pubblicabile, ma che abbisognasse di rivedere il suo romanzo, riceveva alcune indicazioni dall’editore e si rimetteva – alacremente (mi piace alacremente) – a correggere, cassare, riscrivere, reinventare, rimpolpare, alleggerire, caratterizzare, vivacizzare, spegnere etc. etc. era roba sua comunque: non era la prima redazione, neanche la seconda? ma quello che finiva nelle mani del lettore era opera sua. le redazioni spurie, i manoscritti diventavano roba buona per i filologi, per una disciplina come la variantistica, che, modestamente, la seppi.
ora, domando e dico: ma con certe delusioni cocenti che si provano alla lettura, con chi me la devo prendere? con lo scrittore o con l’editor? e se quello che arriva nelle nostre mani è frutto di spinte e controspinte di questa figura grigia e silenziosa, com’era l’originale? logica vuole che fosse peggiore. e che hanno visto gli addetti ai lavori in un mediocre libro – redazione finale – quando stava allo stadio iniziale, e quindi vicino a orrendo, tale da volerlo pubblicare? mi sa che funziona a spinte e controspinte d’altro genere, mi sa.
tanto, il lettore-fan webbico pronto a sdilinquirsi, si trova come i funghi sotto i pioppi, alle cinque di mattina, lungo l’argine della brenta.

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a noi ci rovinò la sinistra al caviale
“quelli che vent’anni fa parlavano
di fare la rivoluzione, ma che alla fine
il mondo gli è andato bene così com’è”*
ora questi sono sparsi un poco
dappertutto spalmati e annojati
sui divani dei salotti della capitale
mentre le ceneri sparse degli operai
i pezzi di polmone la terza settimana
l’università che non si può più andarci
le ferie chi le vede più ormai da tanti anni
comprare un libro ci compro le bistecche
mentre tutto questo e molto altro
infuria e spazza e spezza vite e straccia
futuro non importa a questi né a quelli
ché anzi non esiste più una classe operaia
e se gli ultimi rimasti muoiono gli fanno
un gran favore così parleranno
con più agio a vanvera coi loro cliché
e tra uno e l’altro dei loro must e dei loro tic
parleranno di barche e dei figli a princeton
orgoglio di papà che abbiam bisogno
di figli come questi per dare un futuro alla nazione

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riporto un mio commento ad un pezzo di M. Lotter (che non conosco) testé letto su Poetarum silva: non perché le mie considerazioni meritino chissà quale attenzione, ma per “salvare” qualcosa in cui credo dal garbuglio – gliuommero – dell’età e del troppo studio (davvero sta per subentrare l’entropia!). quando succede di vedere un piccolo frammento di chiaro, vale la pena fissarlo. l’argomento era questo:

http://poetarumsilva.wordpress.com/2012/08/19/scrivo-poesie-e-non-so-di-cosa-parlano-riflessioni-sul-messaggio-artistico-di-m-lotter

io rispondo così:

se può servire, anche se ne dubito: ho preso coscienza da poco che ciò che scrivo è il risultato di una condizione inevitabile (niente di “ispirato”, niente di “romantico” in questo) e che non ho davvero nessun fine: tanto meno quello di arricchire o migliorare ciò che mi circonda. non scrivo tuttavia “per me”, altrimenti tutto sarebbe ancora nascosto nel solito cassetto (e anche sull’esistenza di cassetti si potrebbe obiettare che essi sono già uno scrivere non per se stessi). a differenza di d.e. bragagnini non vedo una contraddizione in quel passaggio preciso, ma un nugolo diffuso di sicurezze e incertezze tipiche dell’età giovanile, che è un bene che si manifestino, ma anche un “male”. un male se dovessero continuare nel tempo a riprodurre un’idea del fare poesia – e non riesco a dire dell’essere poeta: proprio non mi riesce – come qualcosa di eccezionale, sotto sotto orgogliosamente salvifico. consiglio – oh, giusto per l’età avanzata, mica per maestria di similpoeta quale sono – di considerare chi riceve ascolta legge la nostra “poesia” assolutamente, invece, come altro-da-sé, non come una “porzione di sé”: ha diritto, l’altro-da-noi, alla comprensibilità, alla cura del testo, anche se ci importa o meno di far arrivare un “messaggio”. se lo pensiamo come parte di noi – e qui vedo dell’ingenuità, un ardore per l’appunto giovanile: che disgraziatamente o fortunatamente non ho mai avuto – rischiamo di esprimere l’ombelico, di sorvolare sulla chiarezza, di parlarci addosso (come molta pretesa e pretenziosa poesia fa tuttora). consiglio anche di prendere in esame le famose gabbie interpretative: quante più se ne può ingurgitare: per poi espellerle, magari, ma di non cadere nel duplice errore di credere il giudizio dei critici come ciò che uccide la poesia e perciò tossico, e in quell’altro, che da questo deriva, di aver detto, di stare per dire, di star scrivendo la parola antica con un nuovo senso: solo se si legge legge legge e ascolta ascolta ascolta forse questo potrà accadere. in ogni caso, convinzione di vecchia non-poeta: spero che la mia non-poesia non aggiunga niente di nuovo al già detto, o che, per lo meno, non mi accada di pensare orgogliosamente di star facendo questa cosa immane. mi basterebbe si vedesse che dentro ciò che scrivo c’è l’omaggio e l’inchino ad una tradizione antichissima, di cui mi sento soltanto testimone e scriba.

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Qualcosa non ha funzionato: perchè tutta la società è un grande omogeneizzato in cui le passioni umane, a cominciare dall’odio e dall’amore, sono esorcizzate invece che interpretate, perché tutta la società guarda ai risultati, ma non ha più fini. E la politica (che non è solo economia, accidenti!) ha come unico scopo la riproposta dei politici e non l’interesse della comunità, le poltrone e non il “senso” dello stare insieme di quella comunità. Nel nostro paese forse non c’è mai stato un “senso” politico: nell’emergenza è ora di darselo e di impedire al mercato di essere l’unico orizzonte possibile. E di cominciare a lasciare il cachemire nel cassetto per i giorni di festa(1).

1. mi riferivo allora alle apparizioni in tv di certi politici di sinistra che indossavano abiti di cui ogni singolo pezzo valeva uno stipendio di quegli operai dei quali avrebbero dovuto rappresentare le istanze di equità

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QUI

per farsi un’idea di sinistra circa un’idea fissa della destra

(con la partecipazione di un paio di insegnanti sicuramente di sinistra piuttosto destri)

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