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Archive for the ‘racconti’ Category

Mia nonna.

Mia nonna è una donna che si preoccupa.
Si preoccupa di un sacco di cose: che la tovaglia spanda; che il capello sia in ordine; che riesca a metterti dei soldi in mano con l’accortezza di un agente del kgb che ti passa un microfilm, prima che tu esca da casa sua.
Togliere la chiave fuori dalla porta di casa sua, invece no, non la preoccupa affatto. Quello no.
Mia nonna si preoccupa soprattutto quando ti vede sciupata e non c’è stato giorno nella mia vita in cui mia nonna non mi abbia visto sciupata. Anche quando ho preso 18 chili perché aspettavo l’anarchico.
Mia nonna imputa lo sciupamento a due essenziali fattori: numero uno, non mangia; numero due, le hanno fatto il malocchio. (Nel mio caso, c’è anche un terzo fattore: i capelli. Lei mi preferisce afro, quindi quando mi liscio, mi sciupo.)
Le soluzioni allo sciupamento approntate da mia nonna sono tre.
Nell’ordine: riempirti di cibo sperando ti cresca un secondo stomaco per riempire anche quello; pregare Sant’Antonio (grazie al quale ho passato la maggior parte dei miei esami universitari); sottoporti al rituale di smalocchio.
Spesso queste tre soluzioni vengono applicate contemporaneamente e all’unisono.
Tipo un pomeriggio di quand’ero giovinetta, nel quale mi recai presso la magione a porle il consueto saluto settimanale.
Mi accoglie il profumo di melanzane fritte e un lieve, ma proprio proprio appena percettibile, aroma di aglio.
Lei armeggia ai fornelli. Mi guarda e si mette le mani in viso.
“Uuuuh! Sant’Antonio mio, come sei sciupata!” e mi mette due fette di melanzane bollenti in mano.
“Aspetta ca ti smalocchiu”.
Ora essendo io, secondo mia nonna, incredula (nei giorni buoni) e musulmana (in quelli meno buoni), non credo al malocchio, ma credo a mia nonna: se me lo leva lei, funziona.
Mi sento meglio già quando la vedo preparare, con la mano tremula, il piatto con dentro l’acqua, che deve essere ferma, e il cucchiaio con l’olio. Poi mi viene vicino, pregando a bassa voce (ma potrebbe essere supercalifragilisicchespiralidoso), e mi fa i segni della croce sulla fronte con il pollice.
Intinge il dito mignolo nel cucchiaio con l’olio e ne fa cadere le gocce nel piatto con l’acqua.
La prima goccia si allarga e sparisce all’istante.
Terrore.
La seconda, e quelle dopo, uguale.
Raccapriccio.
“Fori malocchiu. Dentro bonocchiu” dice lei rovesciando l’acqua del piatto nel lavandino, con l’espressione grave dell’ortopedico che guarda le lastre di uno stuntman.
Poi commenta con astio generalizzato: “te lo mandarono dai pedimenti”, l’avada kedrava del malocchio.
Mi mette in mano altre due fette di melanzane e il sempre gradito microfilm.
La bacio, esco e sto bene.
Sono sazia, smalocchiata, Sant’Antonio veglia e l’odore d’aglio che mi è rimasto sulla fronte sarà l’amico fedele del pomeriggio.
Non sia mai incontrassi un vampiro.

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Il bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica, bontà e intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la nonna paterni, le cameriere Anna e Ida, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a proclamare che un bambino caro, affettuoso, docile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al pensiero di poter involontariamente provocare il pianto del bambino: non tanto per le lacrime, in fondo trascurabili, quanto per le riprovazioni degli adulti. Infatti, col pretesto dell’amore per il piccolo, essi sfogavano a vicenda i loro spiriti maligni controllandosi e facendosi la spia. Ma paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia propria di questo tipo di bambini, egli misurava bene l’effetto delle varie rappresaglie. Perciò aveva guardato l’uso delle proprie armi nei seguenti termini: per le piccole contrarietà si metteva semplicemente a piangere, con dei singulti – per la verità – che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi più importanti, quando l’azione doveva prolungarsi fino all’esaudimento del desiderio contrastato, metteva il muso e allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: ciò che in meno di una giornata portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor più gravi le tattiche erano due: o simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa, i dolori alla testa e al ventre non sembrandogli consigliabili per il pericolo di purghe (e già nella scelta del male si rivelava la sua forse inconsapevole perfidia perché, a torto o a ragione, si pensava subito a una paralisi infantile); oppure, e forse era il peggio, si metteva a urlare: dalla sua gola usciva, ininterrotto e immobile di tono, un grido estremamente acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranio. In pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia voluttà di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare, l’uno rinfacciando all’altro di aver fatto esasperare l’innocente. Per i giocattoli Giorgio non aveva mai avuto una sincera inclinazione. Solo per vanità ne voleva molti e di bellissimi. Il suo gusto era di portare a casa due-tre amici e di sbalordirli. Da un piccolo armadio, che teneva chiuso a chiave, estraeva ad uno ad uno, e in progressione di magnificenza, i suoi tesori. I compagni spasimavano di invidia. E lui si divertiva ad umiliarli. « No, non toccare tu che hai le mani sporche… Ti piace eh? Da’ qua, da’ qua, se no finisci per guastarlo… E tu, dimmi, te ne hanno regalato uno anche a te? » (ben sapendo che così non era). Dallo spiraglio della porta, genitori e nonni lo covavano teneramente con gli sguardi: « Che caro » sussurravano. « È proprio un omettino, ormai… Sentitelo come si stima!… Eh, ci tiene lui ai suoi giocattoli. Eh, ci tiene all’orsacchiotto che gli ha regalato la sua nonna! ». Quasi che l’essere geloso dei balocchi fosse per un bimbo una virtù straordinaria. Basta. Un conoscente portò un giorno dall’America un giocattolo meraviglioso in dono a Giorgio. Era un « camion del latte », perfettissima riproduzione degli autofurgoni costruiti per quel servizio; verniciato di bianco e azzurro, coi due conducenti in uniforme che si potevano mettere e levare, le portiere anteriori che si aprivano, i pneumatici alle ruote; nell’interno, infilati uno sull’altro per mezzo di speciali guide, tanti canestrini di metallo, ciascuno contenente otto microscopiche bottiglie sigillate col tappo di stagnola. E sui fianchi due autentiche saracinesche a ghigliottina che, aprendosi, si arrotolavano proprio come quelle vere. Era senza dubbio il giocattolo più bello e singolare di quanti ne possedesse Giorgio, e probabilmente il più costoso. Ebbene un pomeriggio il nonno, colonnello in pensione, che in genere non sapeva che cosa fare dell’anima sua, passando dinanzi all’armadio dei giocattoli tirò quasi per caso, come succede, la manopola dello sportello. Senti che cedeva. Giorgio l’aveva chiuso a chiave come al solito, ma l’anta gemella, in cui il chiavistello si incastrava, per dimenticanza non era stata fissata ai catenacci in alto e in basso. E così entrambe si aprirono. Disposti su quattro piani stavano qui in perfetto ordine i giocattoli tutti ancora lucidi e belli perché Giorgio non li adoperava quasi mai. Giorgio era fuori con Ida, anche i genitori erano usciti, la nonna Elena lavorava a maglia nel salotto. Anna in cucina dormicchiava. La casa era quieta e silenziosa. Il colonnello si guardò alle spalle come un ladro. Poi, con un desiderio da lungo tempo vagheggiato, le sue mani si protesero al camion del latte che nella penombra risplendeva. Il nonno lo collocò sul tavolo, si sedette e si accinse a esaminarlo. Ma c’è una legge arcana per cui se un bambino tocca di nascosto una cosa dei grandi, questa cosa subito si rompe e simmetricamente, toccato dai grandi, si rompe il giocattolo che pure il bambino aveva senza danni maneggiato per mesi con energia selvaggia. Non appena il nonno, con la delicatezza di un orologiaio, ebbe alzato una delle piccole saracinesche laterali, si udì un clic, un listello di latta verniciata schizzò fuori e il perno su cui la saracinesca si sarebbe dovuta avvolgere ciondolò senza più sostegno. Col batticuore, il vecchio colonnello si affannò per rimettere le cose a posto. Ma le mani gli tremavano. E gli fu ben chiaro che con la sua abilità da niente era impossibile riparare il guasto. Né si trattava di una avaria recondita, facile a venir dissimulata. Scardinato il perno, la saracinesca non chiudeva più, pendendo tutta sghemba. Un disperato smarrimento prese colui che un giorno ai piedi del Montello aveva condotto i suoi cavalleggeri a una disperata carica contro le mitragliatrici degli austriaci. E un brivido gli percorse le vertebre al suono di una voce che pareva quella del giudizio universale:« Gesummaria, Antonio, cos’hai fatto? ».Il colonnello si voltò. Sulla soglia, immobile, sua moglie, Elena, lo fissava con le pupille dilatate. « L’hai rotto, di’, l’hai rotto? ».
« Macché, non è… ti dic… non è niente » mugolò il vecchio militare, annaspando con le mani nell’assurdo tentativo di sistemare la rottura.
« E adesso? E adesso cosa fai? » incalzò la donna con affanno. « E quando Giorgio se ne accorge? Adesso cosa fai? »
« L’ho appena toccato, ti giuro… doveva essere già rotto… Non ho fatto niente, io » cercò miserabilmente di scusarsi il colonnello; e se mai si era illuso di trovare nella moglie una certa solidarietà morale, questa speranza venne meno, tanta fu l’indignazione della vecchia:
« Non ho fatto non ho fatto, mi sembri un pappagallo!… Si sarà rotto da solo, si capisce!… E fa’ qualcosa almeno, e muoviti, invece di stare là come uno stupido!… Giorgio può essere qui da un momento all’altro… E chi… (la voce le si
ingorgava per la rabbia)… e chi ti ha detto di aprire l’armadio dei giocattoli? ».
Non occorreva altro perché il colonnello perdesse la testa del tutto. Purtroppo era domenica, impossibile trovare un operaio capace di riparare il camioncino. Intanto la signora Elena, quasi per non restare implicata nel delitto, se n’era andata. Il colonnello si sentì solo, abbandonato, nella ingrata selva della vita. La luce declinava. Tra poco notte, e Giorgio di ritorno.
Con l’acqua alla gola, il nonno allora corse in cucina in cerca di uno spago. Con lo spago, sfilato il tetto del camion, riuscì a fissare le estremità della saracinesca, così che restasse chiusa, pressapoco. Evidentemente essa non si poteva aprire più ma almeno dall’esterno non si notava nulla di anormale. Rimise il giocattolo al suo posto, chiuse l’armadio. Si ritirò nel suo studiolo. Appena in tempo. Tre lunghe scampanellate prepotenti annunciavano il ritorno del tiranno.
Se almeno la nonna avesse tenuto la bocca chiusa. Figurarsi. A ora di pranzo, tranne il piccolo, tutti erano al corrente del disastro comprese le donne di servizio. E anche un bambino meno astuto di Giorgio si sarebbe accorto che nell’aria c’era qualcosa di insolito e sospetto. Due o tre volte il colonnello tentò di avviare una conversazione. Ma nessuno lo aiutava.
« Cosa c’è? » domandò Giorgio con la sua naturale improntitudine.« Avete tutti la luna piena? »
« Ah quest’è bella, abbiam la luna piena, abbiamo, ah ah!.» fece il nonno, cercando eroicamente di voltare tutto in scherzo. Ma la sua risata si spense nel silenzio.
Il bambino non fece altre domande. Con sagacia addirittura demoniaca sembrò capire che il disagio generale si riferiva a lui; che l’intera famiglia, per qualche motivo ignoto, si sentiva in colpa: e che lui la teneva nelle mani.
Come fece a indovinare? Fu guidato dai trepidanti sguardi dei familiari che non lo lasciavano un istante? O ci fu qualche delazione? Fatto è che, terminato il pranzo, con un ambiguo sorrisetto, Giorgio andò all’armadio dei giocattoli. Spalancò gli sportelli, restò un buon minuto in contemplazione quasi sapesse di prolungare così l’ansia del colpevole. Quindi, fatta la scelta, trasse dal mobile il camioncino e, tenendolo stretto sotto un braccio, andò a sedersi su un divano, donde fissava ad uno ad uno i grandi, sorridendo.
« Che cosa fai, Giorgino? » disse infine con voce spenta il nonno. « Non è ora di fare la nanna? » «
La nanna? » fu la evasiva risposta del nipote che accentuò il ghigno beffardo.
« E perché non giochi allora? » osò chiedere il vecchio, a quell’agonia sembrandogli preferibile una rapida catastrofe.
« No » fece il bimbo dispettoso « di giocare non ho voglia ». Immobile, aspettò circa mezz’ora, quindi annunciò: « Io vado a letto ». E uscì col camioncino sotto il braccio.
Divenne una mania. Per tutto il giorno dopo, e per l’altro successivo, Giorgio non si distaccò un istante dal veicolo. Perfino a tavola volle tenerselo accanto, come non aveva mai fatto prima per nessun balocco. Ma non giocava, non lo faceva andare, né mostrava alcuna voglia di guardare dentro.
Il nonno viveva sulle spine. « Giorgio » disse più di una volta « ma perché ti porti sempre dietro il camioncino se poi non giochi? Che fissazione è questa? Su, vieni qua, fammi vedere le belle bottigliette! » Insomma, non vedeva l’ora che il nipotino scoprisse il guasto, succedesse poi quello che doveva succedere (non osando tuttavia confessare spontaneamente l’accaduto). Tanto gli pesava il tormento dell’attesa. Ma Giorgio era irremovibile.
« No, non ho voglia. È mio o non è mio il camion? E allora lasciami stare ».
La sera, dopo che Giorgio era andato a letto, i grandi discutevano. « E tu diglielo! » diceva il padre al nonno « piuttosto che continuare in questo modo! E tu diglielo! Non si vive più per questo maledetto camion! »;
« Maledetto? » protestava la nonna. « Non dirlo neanche per scherzo… il giocattolo che gli è più caro di tutti. Povero tesoro! ». Il papà non le badava: « E tu diglielo! »
ripeteva esasperato. « Avrai il coraggio, tu che hai fatto due guerre, avrai il coraggio, no? ».
Non ce ne fu bisogno. Il terzo giorno, comparso Giorgio col suo camioncino, il nonno non seppe trattenersi:
« Su, Giorgio, perché non lo fai andare un poco? Perché non giochi? Mi fai senso, sempre con quel coso sotto il braccio! ». Allora il bambino si ingrugnò come al delinearsi di un capriccio (era sincero o faceva tutta una commedia?). Poi si mise a gridare, singhiozzando:
« Io ne faccio quel che voglio del mio camion, io ne faccio! E finitela di tormentarmi. L’avete capito o no che basta?… Io lo fracasso se mi piace. Io ci pesto sopra i piedi… Là… là, guarda! ». Con le due mani alzò il giocattolo e di tutta forza lo scaraventò per terra, poi coi calcagni gli saltò sopra, sfondandolo.
Divelto il tetto, il camioncino si schiantò e le bottigliette si sparsero per terra.
Qui Giorgio all’improvviso si arrestò, cessò di urlare, si chinò a esaminare una delle due pareti interne del veicolo, afferrò un’estremità del clandestino spago messo dal nonno alla saracinesca. Inviperito, si guardò intorno, livido:
« Chi? » balbettò. « Chi è stato? Chi ci ha messo le mani? Chi l’ha rotto? ».
Si fece avanti il nonno, il vecchio combattente, un poco chino.
« O Giorgino, anima mia » supplicò la mamma. « Sii buono. Il nonno non l’ha fatto apposta, credi. Perdonagli. Giorgino mio!».
Intervenne anche la nonna: « Ah, no, creatura, hai ragione tu… Fagli totò al brutto nonno che ti rompe tutti i giocattoli… Povero innocente. Gli rompono i giocattoli e poi ancora vogliono che sia
buono, poverino. Fagli totò al brutto nonno! ».
Di colpo Giorgio ritornò tranquillo. Guardò lentamente le facce ansiose che lo circondavano. Il sorriso gli ricomparve sulle labbra.
« L’ho detto, io » fece la mamma; « l’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al nonno! Guardatelo, che stella! »
Ma il bimbo li esaminò ancora ad uno ad uno; il padre, la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere.
« E guardatelo che stella… e guardatelo che stella!… » cantarellò, facendo il verso.
Diede un calcio alla carcassa del camioncino che andò a sbattere nel muro. Poi si mise freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. « E guardatelo che stella! » ripeté beffardo, uscendo dalla stanza.
Terrificati, i grandi tacquero.

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In una famiglia allargata come la mia famiglia d’origine, già di suo, più che numerosa, immensa, trovarono posto, in epoche che non mi videro partecipe in quanto stetti a lungo con gli angioletti, un nonno baffutissimo e ottocentesco, un prozio quasi centenario, due prozie vegliarde, una nubile e una vedova. Di tutti costoro infiniti racconti epici e detti memorabili costellarono la mia infanzia. La casa, vecchia, grande e fredda, ospitò a turno i miei fratelli e me, che arrivai quando i due maggiori erano già fuori, in contemporanea con tre sorelle di papà, tutte nubili, belle e piene di manie, una cugina che credetti muta molto a lungo e muta non era. Una zia morì che ero microscopica, a poca distanza dalla nonna, donna bellissima, biondissima, dolcissima, che però mi incuteva timore, essendo, negli ultimi suoi tempi, condannata a letto, molto magra e sofferente: chissà che strana impressione faceva a me infante. Poi la casa si spopolò, infine cambiammo casa, per ben due volte. Nella casa vecchia quando si cenava, e un tot di fratelli era ancora presente sul territorio, la tavolata contava una dozzina di persone. Ho ricordi vaghi e meno vaghi: di me che mangiucchio, di un fratello che si arrabbia moltissimo perché si sono dimenticati che lui odia il formaggio, dei fratelli, generalmente maschi, che mi chiamano Olivia, alludendo alla mia eccessiva magrezza e altezza; ricordo che non ricevevo tantissima attenzione, mentre i grandi si facevano dispetti infiniti, scambiavano battute, e parlavano, soprattutto da grandi (scrissi un racconto ispirato a questo mondo, abbastanza buono, che un editore di racconti non buoni, trovò poco interessante, intitolato “Il muro dei grandi”). Mi facevano recitare le poesie che imparavo a scuola, quando finalmente ci andai, mi chiedevano il resoconto di quello che leggevo, perché tutti mi regalavano libri e io li divoravo e tutti erano increduli e imbarazzati che dessi fondo così in fretta ai miei passatempi. Mi dicevano di leggere una pagina in silenzio, di raccontare e mi cronometravano; poi moltiplicavano il risultato per il numero medio di pagine e infine calcolavano quanti giorni erano passati dall’ultima infornata e quanto tempo avevo dedicato alla lettura. Ne uscivano frastornati, ma dovevano ammettere che avevo letto davvero. I ricordi di questa strana e anche pesante famiglia  popolano molte poesie che ho scritto, mi sovvengono la notte quando non dormo, mi strappano ancora qualche lacrima, perché molti non ci sono più, se ne sono andati anzitempo e troppe altre cose non si sono compiute o sono franate nel peggiore dei modi. Ho ripassato per flash alcune situazioni anche oggi, anche se non ricordo già più dove e perché (come è naturale che sia nei vecchi che ricordano il tempo lontano e rimuovono quello vicino) ho sentito un’allusione alla minigonna, ideata nel 1963. Questa allusione ha funzionato da madeleine. Ricordo dunque benissimo che,  in una famiglia allargata come la mia, già di suo, più che numerosa, immensa, ma soprattutto cattolica secondo svariate sfumature, da indifferente a bigotta, spesso visitata da parroci e cappellani, per i quali le zie nubili emettevano i loro neanche tanto trattenuti sospiri, la discussione sull’uso della minigonna ebbe corso e accalorò gli animi. Io, al solito, guardavo dall’uno all’altro, capendo benissimo, ma incapace di trovare un varco per dire, cinquenne, anch’io la mia. Opinione che però alla fine sfoderai, a completamento della finta riprovazione di papà e fratelli, dell’imbarazzo goloso delle sorelle e forse anche della cugina muta, dello sdegno delle zie piissime e della castigata, anche se non piissima, mamma: “Che poi con una gonna corta così una non ci fa neanche tanto una bella figura: sembra una poveretta che non ha i soldi per comprarsi abbastanza stoffa”( i vestiti alllora si cucivano in famiglia e dalle sarte). Seguirono applausi, di cui ora un po’ mi vergogno: che cosa non fanno i bambini per guadagnarsi un posto, uno qualunque, tra i grandi.

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Neve – racconto

video-audioracconto realizzato da Cristina Bove su un mio short preistorico

 

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Siamo fermi per imprecisate cause tecniche o, forse, per problemi di circolazione, o, magari, per un guasto alla linea, da quasi mezzora. A Romano, ma prima eravamo a Treviglio. Quello che vedo fuori dal finestrino del treno, da un bel pezzo, è un supermercato Lidl. Un ragazzo, avrà una ventina d’anni e indossa una maglietta dei Nirvana (tutto è probabilmente finito prima che lui nascesse), continua a telefonare a qualcuno. Ripete che non sa quando arriverà a Padova. Riaggancia, richiama (la stessa o un’altra persona?), dice qualcosa di vago, ma soprattutto ripete come un mantra che non sa quando arriverà a Padova. Tre, quattro, cinque volte di fila. Poi mi guarda. No ragazzo, con maglietta gruppo grunge che ascoltavo quando tu non c’èri, nemmeno io so quando arriveremo a Padova.

continua…

http://poetarumsilva.com/2014/04/14/se-scrivi-di-noi-possiamo-chiederti-una-cosa/

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Andrea Pomella, Memento

http://www.vicolocannery.it/2013/11/04/memento/

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sono andata a ripescarmelo, tanto mi piace

http://rebstein.wordpress.com/2013/06/17/compagni-di-classe/

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Gianni Montieri è proprio bravo: sempre, ma questo pezzo me lo voglio conservare, essendoci, tra le mille cose che v’ho scorte, un “senso” di Venezia molto particolare:

http://poetarumsilva.wordpress.com/2013/05/01/solo-1500-n-95-al-vaporetto/

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podobnost

 

http://viadellebelledonne.wordpress.com/2012/08/27/lucetta-frisa-a-praga-si-vedono-i-morti-da-la-torre-della-luna-nera-e-altri-racconti/

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A. fa le valigie e parte da sola, senza un soldo, per un posto qualunque, all’estero. Un’emigrante 2.0. Lavora nella fabbrica dell’assistenza informatica. Otto ore con turni a partire dalle 6, dal lunedì al venerdì, sabato e domenica liberi e la libertà di spendere tutto lo stipendio il quindici del mese.

Per ogni chiamata che riceve, deve fare un report. Un ticket, lo chiamano. Così la multinazionale dell’assistenza prende i milioni di euro e lei lo stipendio e la libertà di circondarsi di cose. Poi impara a scrivere in inglese mentre parla in francese e tutto questo mentre è collegata al pc di un cliente a cercare di risolvere i suoi problemi. 8 ore di fila, 5 giorni la settimana, più gli straordinari e nessuna vacanza. Certo, non è come scaricare cassette al mercato. Certo non è come piantar chiodi nei bancali. Per 8 ore, 5 giorni la settimana, quasi 12 mesi di fila, per 4 anni e altri a venire.

Quando esce dal lavoro, A. prende la bici e va al caffè in centro, quello gestito dalla gente del suo paese, con cui può scambiare una parola in dialetto. Come stai. Bene e tu. Prendi qualcosa. Sì, questo o quello. Ciao, alla prossima.

Un giorno incontra un uomo con le stampelle, un friulano come lei.

Un sessantenne che parla e parla e parla.

“Secondo me, mi vuole ipnotizzare” pensa.

L’uomo con le stampelle stava parlando da un’ora quasi, senza che A. avesse potuto trovare lo spazio e la forza di interromperlo. In fondo, era affascinante ascoltare uno del suo paese che era emigrato prima di lei, uno che ci aveva fatto fortuna con questi tedeschi. E come. “Hai un processo? Scordati che i Richter ti diano ragione, appena vedono il tuo cognome italiano. E tu sai come mi sono fatto rispettare? Con la pistola. Tu Richter non mi dai ragione? E io ti ammazzo. Ti faccio paura? Anche ai miei figli faccio paura, mi dicono che sono esagerato, ma io così mi sono sempre fatto rispettare, sai. Con la pistola. Scordati la scalata sociale, qui. Non ti faranno mai entrare in certe cerchie, perché non sei tedesca. Se sei inglese forse sì, ma se sei italiano sei poco più di uno zingaro. E quest’idea che siamo zingari, chi gliel’ha data? Quegli stupidi, quegli imbecilli dei registi neorealisti. Ladri di biciclette, figuriamoci. I danni che hanno creato, i danni! Questo in Europa volevano sentirsi dire, che la nostra cultura italiana è cosa da poveracci. E ancora ci credono. Finché non scendono a Milano o a Firenze o a Roma e si sentono gente di provincia”.

A. ascolta senza batter ciglio. Cosa le importava dell’Arte, in fondo, lei creava ticket e viveva di ticket, mica di arte. “Il popolo è ingenuo, beve tutto quello che gli viene detto. Ad esempio, il pacifismo. Che razza di ideale è? Mica si rendono conto che è un imbroglio che serve ad ammansire. Tutti a credere che fosse un santo, quell’impostore con il lenzuolo…come si chiamava?”

“Gandhi?” “Sì, Gandhi, giusto. E tutti gli indiani ad ascoltarlo, a credere nella non-rivolta, nella pace che è in realtà un “non tocchiamo il padrone”. Bravi. E non si sono accorti che gliel’ha messa in quel posto, Gandhi. Poi guarda che fine ha fatto.”

Gli aceri davanti alla Thomaskirche vibravano, mentre l’aria andava oscurandosi velocemente.

“Forse è meglio che vada”.

“No, aspetta! Fammi vedere le mani”.

“?”

“Le mani. So leggere le mani, io: ho antenate balcaniche.”

A. non ama queste cose, ma le pare brutto sottrarsi a quel vecchio impomatato, con le stampelle: non saprebbe cosa dirgli. Stende la destra. “Dammi anche l’altra”. “Ohoho! Vedo una bella linea della vita, ben marcata: sarà lunga. E guarda quest’altra. Vedi qui? Qui è adesso: non sei felice, non hai un buon lavoro…Ma guarda poco dopo: si distende, si allunga, arriva fino in alto: è la linea del destino. Prenderai delle iniziative importanti, fra non molto, deciderai di dare una svolta decisiva alla tua esistenza, non appena ti capiterà l’occasione giusta e sarà fra breve”. A. vorrebbe chiedergli dell’amore, ma teme di apparire la solita sciocca sentimentale, e poi, come fare ad inserirsi in quel fiume in piena? Ma lui la precede: “Qui, più sulla mano sinistra che sulla destra (la sinistra è la mano dalla parte del cuore, tieni presente) la linea dell’amore è nitida e profonda: passionale, eh, signorina?”. A. questa volta sottrae le mani, provando quasi una scarica elettrica: “Con una scusa o l’altra la buttano sempre sull’intimo. Ma chi ti conosce”. Sorride, abbozza: “Ora devo proprio andare, tra l’altro il tempo sta mettendo al brutto. Alla prossima!” Inforca la bici e mentre dà le prime pedalate sente l’uomo gridarle: “Sarai fortunata, vedrai…un buon lavoro, un amore…una vita lunga, molto lunga”. Nonostante il fastidio che il tipo le aveva provocato: “Bel tipo di fascistone, pieno di pregiudizi: che cazzo sono stata là a sorbirmi come una scema le sue tirate sulla crisi mondiale, la giustizia, i tedeschi…persino Gandhi…ma come si fa a parlare male di Gandhi?”, era più forte di lei: non riusciva a non provare un certo compiacimento schifato. Le aveva predetto una vita lunga e dei cambiamenti interessanti, persino l’amore! E a breve. Lasciò Augustusplatz, passando davanti alla Gewandhaus e all’Oper Leipzig. Mandò un bacio ai due palazzi, pensando al concerto dell’indomani e a quello della settimana successiva. L’unica cosa che amava veramente era la musica, l’unica cosa per cui valeva vivere, si disse. Stava soffiando un vento contrario che la faceva faticare sui pedali e lampi e tuoni cominciavano a susseguirsi più ravvicinati. Imboccò il Georgiring per dirigersi a Johannisplatz. “Ma pensa se mi riesce di mollare quel lavoro di merda, se accolgono almeno una delle domande che ho fatto! Sarebbe una botta di culo! Gli pago da bere, una cena, tutto quello che vuole se va come ha detto, a… coso…lì…”. Non ricordava il nome. Per far presto salì sulle rotaie del tram con la bicicletta, diretta all’attraversamento pedonale. Slittò leggermente, stava cadendo qualche goccia di pioggia. Slittò ancora, mise istintivamente giù un piede. La ballerina le scivolò via. Scese per riprenderla, in velocità, impacciata dalla tracolla, mentre le gocce aumentavano trasformandosi, in pochi secondi, in un temporale. “Non è esattamente il posto migliore al mondo…”. Sentì lo scampanellio, vide anche i fari e subito dopo udì un altro scampanellio e altri fari. La prima ad essere colpita fu la bicicletta che emise un frastuono come di armi che cozzano improvvise, i pezzi furono lanciati oltre il tetto del tram. In una frazione di secondo diventò un ammasso di abiti, carne, tendini, grasso, pelle, vertebre. La testa si assottigliò schizzando lontano da sé gli occhi, che rotolarono nel binario liberato dalla furia del metallo, a guardare un destino luminoso, una vita lunga, lassù, tra le stelle.

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