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Archive for the ‘scrivere’ Category

un frammento scritto da Leopoldo Attolico su facebook

Tutta la poesia di questi ultimi anni mi sembra segnata dalla nostalgia dell’origine, dalla passione inappagata del senso primitivo della parola, quando un vocabolo poteva illuminare una vita. Mai si era vista una società, anzi una civiltà così labirintica come quella di oggi, in cui si entra solo per venire centripetati e polverizzati dalla potenza tecnologica, che espelle con razionale spietatezza ogni gesto dettato dalla fantasia. Non meraviglia che la poesia che sfugge al destino tecnologico parli di notte, di morte, di infanzia, di sensazioni regressive annidate nella memoria. Alla poesia non resta che la regressione per protestare contro il labirinto di cui sopra. Ma a mio avviso si tratta di una regressione strategica, di un “cantare” il passato per meglio isolare, nella sua irrimediabile bruttezza, l’ideologia del presente. E in questa regressione sta il suo onore.

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Corrispondenze

Chiunque scriva, scrive di qualcosa che conosce, che gli è vicino: ma non è mai la sua vita, nemmeno si trattasse di autobiografia. Anche quando l’io poetico dice io, quell’io non è io, ma molti. Chiedersi se nella poesia e nella letteratura in genere ci sia corrispondenza tra la vita di chi scrive e le cose di cui scrive è un esercizio privo di senso, una curiosità destinata a rimanere delusa: anche quando, paradossalmente, chi scrive scrivesse solo di sé, con precisione documentaria, con disarmante trasparenza.

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morte

un poeta quando scrive, vicino o lontano, a ben guardare sta sempre parlando della morte. ne parla in modo esplicito, chiamandola morte, in modo sfumato, con molte immagini, molti nomi. ma la morte è sempre nelle sue parole. se non c’è una qualche morte, una qualche forma di morte, non è poesia. egli ci parla della nostra vocazione alla discesa, della disperazione della discesa, della desolazione di essere vivi per morire. è per questo che la poesia non la vuole quasi nessuno: giace negletta, la vera poesia, come un parente povero, un po’ matto, di cui i parenti ricchi e sani si vergognano.

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parlando alcuni giorni fa con una cara amica al telefono – di quelle che si fanno trovare, sempre: e motivi per negarsi ne avrebbe – poetessa di larga esperienza nella “scrittura” (virgoletto perché odio profondamente questa parola, ma anche mi adatto bonariamente ad usarla), ho capito una volta di più che quello che scrivo lo faccio prima di tutto per me. e aggiungo: come quando cucino: prima di tutto mi diverto e poi lo condivido. dalla condivisione del suo pane e companatico (l’immagine del convivio dantesco è sempre viva, mutatis mutandis) ne è venuto apprezzamento nel tempo ed elogi da persone che, dice, mai si sarebbe aspettata.
le cose vanno così: se c’è sostanza, lo dirà il tempo.
nessuna chiamata alle armi, nessun programma: soprattutto nessuno pensi di dire cosa ci deve o non ci deve essere nella “scrittura”. tutti i programmi e gli appelli hanno/hanno avuto sempre un che di ridicolo e presuntuoso: soprattutto quando non si accettano i limiti e le chiamate d’altri, ché spesso si incontrano di questi soloni, e allora tutti i soloni hanno ragion d’essere, oppure nessuno. non è più tempo per regulae. guardino tutti nel loro fiumicello, se per caso non scorre fangoso*, invece che nei rivoletti altrui. non è più tempo: e ancora, tuttavia, sarà il tempo l’unico giudice.

*Hor, Sermones, I, 4,11

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il grande scoglio è il passaggio dalla teoria alla pratica (di scrittura) con lo stramaledettissimo saggio breve/articolo di giornale, la perdurante c***** pazzesca dell’esame di stato. le ho provate tutte e tutte di testa mia in questi quindici anni. non è morto nessuno. da alcuni anni mi regolo così e così anche diversi colleghi: tutta la terza solo analisi del testo, dalla quarta introduzione – che già la parola – graduata del saggio-articolo. a volte do qualche passo di teoria da studiare, tanto per ricavarne indicazioni da discutere, a volte no. i ragazzi fanno domande a cui per rispondere mi costringono a innumerevoli peripli fitti di esempi. una domanda onnicomprensiva di tutte le possibili difficoltà (e di conseguenza la risposta rischiava di essere lunga come il restante anno scolastico) è stata questa: “come facciamo a strutturare un testo da espositivo ad argomentativo, perché tipo non è che se scrivo di machiavelli e guicciardini su virtù e fortuna, arrivo io, e argomento chissà che tesi” . bella domanda. il rischio delle definizioni! allora ho provato a dire che l’argomentazione non è cavar fuori chissà che travolgente ragionamento innovativo, ma far collidere quelle quattro acche che vengono fornite, cercando di sostenere un ragionamento coerente e coeso (altra parola insopportabile: coeso). dico: è la veste, l’involucro che tiene insieme considerazioni e citazioni testuali, l’occasione fittizia che intelligentemente uno si crea ex-post facendola passare per ex-ante. mi sono venute in mente quelle belle recensioni di film, di libri, di film e libri, così per niente recensioni, che scriveva beniamino placido che aveva il “dossier” (come chiamano la mappata di fogli con pezzettoni di testi che danno ai poveri studenti, supponendo che non sappiano nulla attorno ad un dato argomento) tutto dentro di sé. hanno capito per lo meno questo.
“esempi concreti?”. dico: cercate alla voce beniamino placido e vedete se scappa fuori qualcosa. poi ho pensato a certi blog a cui ho partecipato anch’io. poi ancora ho dato due o tre nomi perché vedano in concreto come, in tremila battute, anche meno (meno! meno!) si può partire da una situazione reale (un incontro, un discorso carpito al bar, al supermercato), che può risultare realissimo anche se costruito ad arte, poco importa, e incastonarci delle riflessioni letterarie, ma anche d’altra natura, per inferenza inversa, quasi. mi è venuto in mente “the wolf of wall street”: perché, a proposito di “virtù e fortuna” non farne una recensione e mettere in filigrana il pensiero di machiavelli e guicciardini?
ma una che deve fare di più? a volte mi faccio sinceramente pena, se penso che alcuni di questi poveretti continuano a non saper ideare, a scrivere in modo spoglio, elementare anche un microsaggio di approfondimento su un autore, privo di vincoli e invenzioni posticce, infarcendolo di errori sintattici e lessicali. te lo do io il saggio breve.

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Scrittura

Parlare di letteratura e del senso della scrittura e della lettura in carcere, oggi, è stato bellissimo e commovente. Uno scambio vero. Forse la vita quando ti mette alla prova ti aiuta a andare al centro delle cose, e la letteratura, se ha senso, fa questo. Molto meglio il carcere allora che gli allievi annoiati e presuntuosi della scuola “per artisti” in cui sono transitato quest’anno in un’altra occasione. Nel momento in cui ti senti “qualcuno”, chiunque tu sia, inizi a perdere valore.

Aldo Nove, su FB

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La democrazia ha come controindicazione il festival continuo della stupidità. Non è che in un regime totalitario la stupidità umana diminuisca nel suo terrificante potenziale distruttivo, ma, dovendosene stare zitta, la si vede circolare meno capillarmente. In più, mentre stanno zitti, gli uomini solitamente pensano, progettano, immaginano: quasi sempre un mondo migliore. E’ così che saltano agli occhi le bestialità e le sciocchezze dei regimi tirannici. Invece, allo stato attuale, un tirannello occidentale, avvoltolato in un bozzolo di stupidità, di sciocchezze, non appare in contrasto con una società che ha la possibilità di sciorinare 24/24 il suo apparato di scemenzine, che non tace mai, che può fare passerella di cattivo gusto ad ogni ora del giorno e della notte, che scaghicchia e scataracchia paroline insulse. Lo scemo del villaggio globale ha un pubblico moltiplicato: e tuttavia si tratta di un mondo chiuso, autoreferenziale, come una corte del ‘500, solo molto ed esclusivamente dannoso, proprio per i numeri stratosferici di emittenti e riceventi (riceventi ed emittenti che si scambiano i ruoli: di qui l’autoreferenzialità). Se poi le paroline le metti in un certo modo, che vai a capo quando un altro non ci andrebbe, sei direttamente poeta e ti puoi mettere in capo un serto assertivo di alloro, allora: e di sicuro trovi chi farà oh! In mezzo a questo va e vieni continuo le sciocchezze mie, le sciocchezze tue si azzerano: anche le sue: ed eccoci qua.

L.T.

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Tre quarti delle cose che si scrivono e si stampano in questo paese da circa trent’anni fa pena. Ed è per questo che tanti, parlando di sé, ricorrono alla parola “scrittura”, che in apparenza pare un ritrovato sciccoso e invece è la prova che, inconsciamente, molti sanno che il loro scrivere non è, prima di tutto, “letteratura”. Questa terribile deformazione-illusione ottica per cui ci prendiamo la scrittura senza la letteratura, è supportata da tutta una rete di critici poco critici, che fanno letture approfondite quanto un guado, mentre fingono di spargere “di parlar si’ largo fiume”: in ispecie tre o quattro donnicciuole famosette: ma poracce, bizzose, da cui i nostri scrittori temono di farsi maltrattare, mentre sarebbe un onore stare in cagnesco a simili non-critici. Fate un po’ come vi pare: finché trovate chi vi pubblica le vostre pippe, finché le regole sono queste, finché ottomila copie sono un traguardo: tranquilli. Però non parlate di “scrittura” (di letteratura guai a voi!): ricorrete piuttosto alla perifrasi “quello che scrivo”: un ottimo onesto significativo grado zero. Il grado zero della scrittura, appunto.

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quando al massimo esisteva il correttore di bozze, lo scrittore pubblicabile, ma che abbisognasse di rivedere il suo romanzo, riceveva alcune indicazioni dall’editore e si rimetteva – alacremente (mi piace alacremente) – a correggere, cassare, riscrivere, reinventare, rimpolpare, alleggerire, caratterizzare, vivacizzare, spegnere etc. etc. era roba sua comunque: non era la prima redazione, neanche la seconda? ma quello che finiva nelle mani del lettore era opera sua. le redazioni spurie, i manoscritti diventavano roba buona per i filologi, per una disciplina come la variantistica, che, modestamente, la seppi.
ora, domando e dico: ma con certe delusioni cocenti che si provano alla lettura, con chi me la devo prendere? con lo scrittore o con l’editor? e se quello che arriva nelle nostre mani è frutto di spinte e controspinte di questa figura grigia e silenziosa, com’era l’originale? logica vuole che fosse peggiore. e che hanno visto gli addetti ai lavori in un mediocre libro – redazione finale – quando stava allo stadio iniziale, e quindi vicino a orrendo, tale da volerlo pubblicare? mi sa che funziona a spinte e controspinte d’altro genere, mi sa.
tanto, il lettore-fan webbico pronto a sdilinquirsi, si trova come i funghi sotto i pioppi, alle cinque di mattina, lungo l’argine della brenta.

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“Billy. Non voglio che tu stia male. E so che presto starai meglio. Spero che un giorno mi potrai perdonare. Magari mi scriverai e mi racconterai come stai.”
Aveva un tale desiderio di mollare valigia e bagaglio da viaggio e correre ad abbracciarla e chiederle di cambiare idea che solo la rabbia riusciva a frenarlo. E con la chiarezza dettatagli dalla rabbia vide una verità che lo aiutò a uscire dalla porta.
“Vuoi vincere su tutti i fronti, vero? Beh, scordatelo. Accontentati di ciò che hai scelto.”

Andre Dubus II, Il lanciatore

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