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Archive for the ‘storie di ordinaria follia’ Category

Vado in banca a pagare un F24, mi fermo nell’area dell’ingresso a prelevare del contante. All’altro bancomat ci sono un uomo di una certa età e una giovane che parla a voce alta e litiga con l’uomo subissandolo di parolacce irripetibili: però due, almeno, ve le ripeto per l’assurdità (si capiva che erano amanti): gli dà del pompinaro e dello scassacazzi, e insiste col dire che lei senza di lui non ha mai sbagliato a digitare, il tutto a livelli sonori incredibili. Esce persino il direttore a controllare. Una volta all’interno, il cassiere si scusa prima che io dica a, perché mi vede le sopracciglia ancora alzate e poco propense a ridiscendere nell’apposita sporgenza che le ospita in condizioni normali. Anche le mie pupille devono aver avuto dimensioni particolari.
Vado a comprare del pane vicino all’ufficio in cui m’ero recata consapevole che ci sarebbero volute tre ore, approfittando del fatto che stavano servendo A 027 e io avevo A 038, e mentre avevo provato ad attendere in loco e servivano A 027, avevo perfettamente percepito che stavo invecchiando; così sono uscita e ho fatto banca e panettiere. Sconvolta dalla pazza della banca vado da questo fornaio che scopro ha bei dolci, pizze, brioscine. Segna: tornare dal panettiere vicino a dove si pagano le spazzature.
La commessa guarda fuori dalla vetrina e contemporaneamente mi chiede cosa desidero. Non mi guarda. Dico una pagnotta di grano duro e due arabi. Ne ho solo uno, dice guardando di lato, altrimenti ho questi e mi mostra una specie di francesina che non mi ricorda un arabo manco per niente. No. Oppure ho questi, e mi mostra due specie di arabi, che però sono al latte. Vada per questi. In tutto il tempo ha guardato di lato, fuori dalla vetrina, oltre la mia spalla. Pago, mi dà il resto, una manciata di centesimi, e guarda verso l’ingresso del forno. Non mi ha mai guardato in faccia un secondo. So cosa pensate, ma non era affatto come pensate: conosco quei segni. Questa aveva le palle girate o era la seconda persona disturbata che incontravo nell’arco di mezz’ora. Sono sempre più colpita da questi avvenimenti. Qualcuno direbbe le scie chimiche.

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la vaschetta di cacciata ha esaurito il numero geneticamente programmato di sciacquoni al tasto risparmio (detto in breve “pulsante pipì”), per l’ovvia ragione che le pipì sono numericamente superiori alle pupù, e sta rompendo alquanto a livello di tasto pupù (usato ora anche come tasto pipì datosi il defunto di cui sopra) perché, pulsantizzato, esso non ritorna in sede e fa scorrere l’acqua, invece di incamerarla, con nocumento del bilancio famigliare nonché scassamento di clop clop fssssss clop clop fino a che non viene ispezionato e rimesso in ordine. ora, ammetto, senza alcuna vergogna praticomanuale, che l’impulso mio magari non è molto intenso, in ispecie di questi tempi che le mano mi friggono vel hanno consistenza di formaggetta primosale in cestello, ma il pulsantone ci mette la sua perversione personale a non ritornare in sede, d’accordo con il capofamiglia che, da sempre, invece di spiegare l’accorgimenti tecnicopratici dei vari gadget elettrodomestici diavolerie di casa, se la cava bofonchiando un “per forza! quando ci mettete voi le mano, non funziona gnente!”. beccato or ora – orrore! – a porchizzare in direzione del tasto pupù, appresso a pipì che, nonostante la maschia e prorompente vitalità dell’impulso impressovi, ha continuato imperterrito a fornire acqua non richiesta.
che se ero io, mi beccavo uno sbuffo e un’aria di pietosa malcelata sopportazione.

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anche i gabbiani non sono dunque più utilizzabili, care le mie poetesse! non più jonathan livingston né gabbianelle.
sono quegli aggressivi uccelli alla hitchcock, quei turpi esseri spaventosi che incontrai, ormai irrimediabilmente mutati, qualche estate fa, irriconoscibili, il mattino alle sette, alle zattere. grandi come galline grandi, minacciosi, padroni del territorio, aprivano i sacchi della spazzatura, rovistavano abilmente, si alzavano in volo con bucce, resti di carne, spargendo all’intorno detriti rivoltanti.
vuoi mangiare due spaghetti all’amatrice, all’aperto in via dell’anima, in piazza navona, farti lo spritz con due polipetti in campo santa margherita? piomba il gabbiano scafato come un kamikaze sulla forchetta che avvicini alle labbra vogliose, come un’arpia ti scagazza la mensa. 
questi occhi hanno visto in santa margherita fiondarsi sul banco del pescivendolo un gabbiano e ratto agguantare un branzino, pericolosa zavorra, portato su su chissà dove e dove consumato.

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Si arriva nel paesino-paesotto circa alle nove di sera. Ha una piazza riarredata su cui si può discutere, ma che consente manifestazioni culturali all’aperto, dotata di una pista, non adattissima, su cui balleremo tuttavia il tango. L’osservazione-tormentone (che ci scappa ogni volta che andiamo in giro nel Veneto anche più prossimo, o nel Triveneto) esce fuori anche stavolta: “Come esci da Mestre, tutto è immediatamente più bello”. Pur con tutti gli sforzi, Mestre rimane il più cessoso buco di culo dell’universo urbano e urbanistico (anche questa è cosa che mi premeva comunicarvi, prima o poi). Si arriva dunque circa alle nove con una palla di sole in fronte, accecante. “Va in sacco, domani farà caldo”. Fa già caldo, ci sono trenta gradi umidicci, il clima delle ultime settimane ci aveva illusi e viziati: ma il tanghèro-tànghero il caldo gli fa una pippa. Scendiamo dalla macchina guardandoci intorno. Non guidavo io, ché la macchinina cambio-automatico, tanto bellina povera cara, me mi fa un certo che guidarla. E questa sìasi premessa fondamentale per gli sviluppi seguenti.
Alle nove attacca il ballo. alle nove e mezza esibizione di due ballerini venetissimi che, insomma. Alle nove e trenta riattacca il ballo. Ritrovo dei cari amici persi un po’ di vista, si fa una parola, si fa un giro di ballo. Piacevole serata. Lo stomachino vuoto si fa sentire, ma soprattutto sete. Si brontolicchia se proseguire la serata, che è ancora giovane, poco più in là, in una milonga alle porte di Padova: sì, no, no sì. No. La macchinina – o-oh – ha i fari accesi: ma porca… (è per questo che ci tenevo alla summenzionata premessa).  Naturalmente, appena le chiedi di accendersi, muore inesorabilmente. Mica è la gloriosa Multipla che il giro di chiave spegneva tutto! Sì, dai, avevi il sole in faccia, non hai visto i fari ancora accesi. Avevi fretta, guardavi in giro (come sono conciliante mentre mi si affolla attorno una caterva di angeli e santi e madonne, svegliati nel cuor della notte). La serata, da ancora giovane e piacente, si fa velocemente matura, tendente a vecchia, e anche un po’ baldracca. Se ne sono andati via tutti, non possiamo rimediare un passaggio, non ci sono mezzi di trasporto a quell’ora. Provo a chiamare il servizio della casa giapponese, sapendo già che un meccanico, per fare ponte, mi chiederà duecento euro: e infatti: rispondono subito, ma ringrazio. Andiamo a bere una birra: buona, caspita, belga, ambrata, due patatine, alcolicissima. Chiediamo al giovane barista, ma gli avventori sono tutti giovani, non sanno a momenti cosa siano i cavi. Non li ha nessuno.
Dormiamo in macchina e domattina all’alba cerchiamo un elettrauto? Tiriamo più a lungo possibile, una flebile speranza ci sostiene fino a che si materializza in un omino che corre a casa a prendere i cavi. Mentre spostiamo la macchinina, si fanno sotto dei giovani per aiutarci, si dicono due cose, si mostrano rammaricati di non poter risolvere il problema (le macchine automatiche non le accendi a spinta: volevo informarvi anche di questo). Nei cinque minuti intercorsi tra il “vado a prenderli” dell’omino e il suo ritorno, ho pensato tante cose: che non tornava più, che faceva l’italiano menefotto, in fin dei conti chi siamo noi per, che la moglie lo sequestrava, col cazzo che esci a quest’ora, i cavi, tz, tutte scuse! E invece arriva, uno spunto e via! grazie, o paesino-paesotto dell’hinterland nordestino padovano, che hai ancora gente per strada all’una di notte che chiacchiera, che si ferma sorridente, che, se può, dà una mano, grazie!
Si riparte. Siamo venuti di qua! ti dico che siamo venuti di qua! ma va’ là. ti – dico – che – siamo – venuti – di – qua! Giro a vuoto, e per fortuna. Oh c****, la giacca! Quale giacca? La giacca, l’ho lasciata nel baretto. Con il portafoglio? Sì, tutto, tutto dentro. Complimenti, vivissimi. Spegne il motore! Non ci posso credere: hai spento il motore, oh c****! accendilo! lascialo acceso! Si riaccende, Allah-u-akbar! Mentre si avvia al baretto, altra sveglia per santi angeli arcangeli e madonne: “Che c’è ora, che ti serve?”. Torna, e con la giacca. Si va per dove dico io, con calma, lungo la riviera del Brenta, bella di giorno e di notte: e ridiamo. Rido anch’io, con tutto che a me ‘ste cose mettono sempre un’irritazione che lo prenderei a calci. Ma l’ho sposato per allegria, e per amore, per nient’altro. Non posso non pensare che tutto si risolve, nonostante molte cose ci abbiamo intralciato il cammino e continuino a complicarci penosamente la vita. Chissà che ci siano dei cavi, anche questa volta, da qualche parte, con cui cavarsela. Si chiamano cavi, per quello.

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in tutti gli ambienti ci sono delle specie di guru (guruguru! me mi viene in mente il tacchino: e infatti spesso cotesti individui hanno attitudini tacchinesche, detto, così, en passant). in tutti gli ambienti si formano delle correnti di gusto (quella cosa per cui tutti gli stili sono ammessi, tutti gli obbrobri, tutti i tatuaggi, i pirsin, il coppedè vicino all’egizio-sommaruga, per capirci: né vale commentare, perché de gustibus; una volta che commentai sostenendo che esiste per me una specie di assoluto-relativo cui tendere, per non guastare, niente calma grandezza, per carità, mi beccai di beghina crociana&idealista del ecc. ecc.). insomma, in tutti gli ambienti c’è de’ be’ tomi che acquistano (magia? charme? una specie di guarda come sono bravo stampato in faccia dalla nascita? congiunzioni, congiure, congiunture astrali? presentazione da parte di altro guruguru?) un’importanza condita di aura lideresca, da nonplusultra, ma senti qua che roba.
ora, io, di mio, sta’ sicuro che se cerchi di catturarmi e portarmi a pascolare nel campetto affollato, mi do alla macchia, sono come il cane randagio della favoletta: e intanto (c’ hanno provato a ipnotizzarmi, che sarebbe tanto comodo per svariati impieghi: ma niente: rido); se mi vuoi convincere, metti là la tua mercanzia: io guardo, annuso, tasto: se mi piace compro, o torno, sennò ciao. non provare a spingere, che fai peggio. in tutti gli ambienti, dicevo, c’è de’ be’ personaggi che attirano folle di consenzienti (troppo facile pensare alla politica: lasciamola fuori): l’attrice teatrale canina, il cantante cinofilo (che però non va al cinema), lo scrittore che ormai va qualunque cosaccia scriva, l’esperto musicale che spara giudizi tranchant e tutti giù a tranciare, quello che osanna, e tutti su a osannare nell’alto dei cieli, alleluja alleluja! vi do una notizia, mi spiace ma mi tocca informarvi (che è la cosa cui tengo di più: informarvi delle stranezze): c’è anche il tj di grido: il t-gei è il tango-disk-jockey, per abbrev. tj. guai a non riconoscergli una caratura superiore agli altri (forse perché si fa pagare più degli altri? forse perché – come sopra – ha scritto in faccia dalla nascita ecc. ecc.? forse perché essendo esperto musicale per forza mette la musica da tango migliore? forse perché viene da ambienti tanghèri autochic, autobravissimi, in cui la fama si autoalimenta, appunto?). in tutti gli ambienti, e il tango ci ha anch’esso l’ambient (dio solo sa quanto poco contava questa cosa quindici anni fa, che dio abbia in gloria gli anni dei miei primi passi!), devi sottostare a delle specie di regole di scuderia, soggette però a mutamenti repentini, attento ad annusare l’aria prima degli altri per cui X, tanto osannato un tempo, ora, sì, inzomma! mentre Y, che non se lo filava nessuno, ora te lo danno come il genio del male della tanda (tanda: gruppo di quattro ovvero tre pezzi di tango, vals, milonga, intervallati da stacchetti di max 30 sec. di altro genere: lo stacchetto è il tempo entro il quale il ballerino accompagna la ballerina al posto in cui l’ha trovata, perché sono tanto ordinati i ballerini di tango, e si ridona ad altra impaziente tanguera).
succede, come in tutti gli ambienti, che tu hai espresso nel lontano 1902 un giudizio positivo su un tj, un ballerino, un maestro argentino e la folla dei festanti ti ha: ignorato, rimbeccato, manco presa in considerazione, sorrisetto, lasciamo perdere; nel più vicino 2012 quegli stessi ti dicono: ti consiglio il tale tj (quello stesso, quello lì! che tu avevi promosso all’attenzione invitandolo a farsi coraggio e rendersi disponibile a mettere la musica – si diceva musicalizzare, da musicalizador: ma anche questa è preistoria): e moo disci ammé? hai mai preso lezione da **** (che poi, i festanti, hanno scarsa memoria, cosa che purtroppo, abbonda invece in queste lande): ma se te l’avevo consigliato io? (naturalmente, colpiti dalla grossolanità del fatto, si trasecola, lì per lì, o si tace, per lo migliore).
insomma, in tutti gli ambienti più o meno così, o con le varianti del caso, c’è il suo bel pesce pilota che apre la strada ai giudizi, li condiziona, attrae su di sé o su chi gli piace, l’attenzione. io, eterno cane sciolto (così sciolto che ne rimarrà una pozzangherina, vedrete), ieri sera mi sono annojata a morte a una serata con uno dei tj più acclamati. sono rientrata tardi perché speravo sempre si redimesse: e, porello, ha pure messo delle tande ragionevoli, ma così male assortite tra loro e al loro interno, con pezzi iniziali sprintosi che finivano al quarto in morire, che la sensazione globale è stata da pollice verso. ma poi, ragionevolissimo dubbio: se un’orchestra va per la maggiore da settant’anni in un dato pezzo, ci sarà un motivo, no?
se un certo pezzo non piace, indipendentemente dall’orchestra, ci sarà anche lì una ragion sufficiente, no? allora, tj alla moda: gli sperimentalismi, i cocktail musicali, in cui mesci il pezzo già brutto di suo nella versione meno conosciuta e/o orrenda, assieme ad altri pezzi rari in versioni imballabili e imballate (:come un motore), fatteli a casa tua, che ci hai un finissimo, non lo metto in dubbio, orecchio musicale. a noi, pori mortali, ci piace d’abballà, capisci? dancing. non so se

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nell’era informatica non sappia la commissione invalidi dell’asl ciò che lo stesso team di medici (medici!) conosce di un cittadino circa la sua patente di guida; non sappia lo stesso identico team di magnaschei ridanciano stronzo offensivo al solo guardarlo ciò che il medesimo cittadino ha prodotto come documentazione svariate volte in sede di valutazione grado di invalidità, ovvero per rilascio passy ZTL, ovvero per concessione ausili: stesso ufficio, corridoio, stanza ora tre, ora diciannove, ora ventiquattrovirgolasetteperiodico, ma sempre le stesse facce. non sappia niente, cada dalle nuvole, non risponda con chiarezza e gentilezza al cittadino, tratti il summenzionato come un nulla, parli dei cazzi propri, ridacchi e pretenda, soprattutto pretenda, che il summenzionato cittadino, bisognoso di un documento che gli spetta di diritto e che paga abbondantemente, non solo con la sua generale contribuzione nonché tasse, ma con fior di almeno tre versamenti diversi, intendasi il rinnovo patente, esiga, pretenda la summenzionata commissione, che l’utente, o cittadino, che ha contribuito ad abbattere un ettometro di foresta per le fotocopie che ha prodotto alla predetta commissione, esattamente la stessa, nelle sue molteplici e compartimentate stagne mansioni, sia di volta in volta ingegnere del traffico, avvocato, medico. chiedersi che ne è del cittadino settantacinquenne con quinta elementare, un po’ sordo.

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a me le fosse ardeatine hanno fatto sempre tanta impressione. più terribile impressione mi fece la visita scolastica, credo quattro anni fa, durante la quale una virtuosissima guida, di quelle graziate da alemanno, si dette da fare come una matta per spiegare ai miei studenti che l’eccidio si sarebbe potuto evitare se quelli di via rasella si fossero consegnati, mentre sappiamo che la rappresaglia fu consumata in tutta fretta, in segreto, e meno di ventiquattro ore dopo l’attentato, mentre in germania hitler strillava che voleva la distruzione di roma, mille deportati per ogni tedesco ucciso e fanfaronate simili. cercai di farla smettere, perché diceva cose non vere.
per fortuna, quando si entra nel sacrario si deve tacere. pregai i ragazzi di leggere quanti più nomi potevano, come omaggio ai caduti.
ora, quando mi si tira fuori il rapporto 1/10 come legittimo in base alle leggi internazionali (che poi il diritto di rappresaglia non era affatto contemplato), mi pare di sentire il giustificazionismo straccione di una guida turistica molto ignorante del comune di roma, graziata da alemanno. se siete fascisti, per convinzione o convenzione, stateci: ma fuori da qui.
signora angela merkel: si riprenda questo ingombrante fetido cadavere e se lo seppellisca dove crede!

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dovrei entrare più tardi: ed entrerò più tardi, raddoppiando i tempi da bradipo nel fare le cose del mattino. ma la notte è durata poco ugualmente: l’imperativo categorico e il super-io che si sono messi in combutta contro di me hanno posizionato la sveglia biologica sulle 5.45, quanto a quella concreta, con la musichetta suadente da vomito, han fatto in modo che non mi avvedessi di non averla esclusa. così mi sono rigirata tre quarti d’ora, poi mi sono alzata. e non ho comprato il latte. alle dieci sbranerò la materia prima del mio lavoro.

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c’è una cosa che odio profondamente, che faccio anche se la odio;  la faccio perché ancor più ne odio un’altra: odio quando un paio di alunni ridacchiano tra loro ripetutamente mentre spiego cose noiose ma necessarie. ma non se ridacchiano quella volta soltanto: la faccio se hanno riso o perso tempo anche quando non era affatto noioso. perché sono di quelli che non gli interessa quasi niente, che non sanno stare buoni venti minuti, che continuano imperterriti e manco s’accorgono che li stai guardando. tiro avanti una settimana, gli do tempo di mettersi in riga. niente. allora faccio la cosa odiosa. vado avanti tranquilla: le cose noiose ma necessarie sono anche difficili: perdersi un passaggio anche minimo può essere fatale.
dico una cosa apparentemente poco importante e invece decisiva: tipo che leggiamo la scuola siciliana toscanizzata ma che abbiamo la prova che i testi erano a tutti gli effetti in siciliano e spiego perché. poi richiamo le vacanziere e le avverto seccamente che è da un po’ che le sto tenendo d’occhio: si scocciano. poi ancora mi metto a leggere “amor è uno desio che vien da core” in siciliano. mentre tutti sono attenti, una delle due ridanciane se ne esce giuliva non raccapezzandosi del perché questa befana stia facendo ‘sta cosa buffa e inutile: e mi fa un po’ divertita e sprezzante: ma noi non abbiamo il sonetto scritto così! ha un’aria trionfante, stracolma di ripicca.
si voltano in tanti in classe, con aria di compatimento: l’aveva detto che avrebbe letto in siciliano per farci capire la differenza.
la prossima volta ti do quattro, per dire.

[molti a questo racconto hanno obiettato che dovrei dare due, subito]

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suv con ragazzotto in sosta sul ciglio della strada impediente l’accesso al parcheggio: ma parcheggia, cristo! devo clacsonare due volte, si muove con ostentata lentezza.
sono io che chiedo, capite?
suv con ragazzotta che mi sorpassa da destra per precedermi al semaforo, rosso. che poi ritrovo davanti al prossimo rosso, al prossimo rosso, al prossimo rosso. nei miei sogni scendo, apro la portiera del suv, la tiro giù e la meno di santa ragione.
ciuffo di adolescenti che attraversi fuori dai passaggi pedonali, chiacchierando amabilmente, parlando, o digitando, al cellulare, e io non ho nessuno dietro, perciò potresti aspettare se quella minchia di padri che vi ritrovate vi avesse insegnato a non sentirvi il centro dell’universo: ecco accelererei e farei una strage, depurando il mondo da futuri quarantenni coglioni.
trentenne rinsecchita che mi dici “sveglia, signora” perché mi sono imbambolata di fronte ad uno scaffale al supermercato non ricordando affatto, morta di sonno, che cosa devo comprare: hai ragione, sto dormendo in piedi. ma tu, vedi, trentenne del cazzo, secca secca, sveglia signora lo dici a tua madre, che nel frattempo nei miei sogni s’è beccata della donna dai facili costumi, e se non ce l’hai, una madre, che dall’educazione che hai mi sa tanto di no, vedi di andare, in fenicio, a FNCL.

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