Si arriva nel paesino-paesotto circa alle nove di sera. Ha una piazza riarredata su cui si può discutere, ma che consente manifestazioni culturali all’aperto, dotata di una pista, non adattissima, su cui balleremo tuttavia il tango. L’osservazione-tormentone (che ci scappa ogni volta che andiamo in giro nel Veneto anche più prossimo, o nel Triveneto) esce fuori anche stavolta: “Come esci da Mestre, tutto è immediatamente più bello”. Pur con tutti gli sforzi, Mestre rimane il più cessoso buco di culo dell’universo urbano e urbanistico (anche questa è cosa che mi premeva comunicarvi, prima o poi). Si arriva dunque circa alle nove con una palla di sole in fronte, accecante. “Va in sacco, domani farà caldo”. Fa già caldo, ci sono trenta gradi umidicci, il clima delle ultime settimane ci aveva illusi e viziati: ma il tanghèro-tànghero il caldo gli fa una pippa. Scendiamo dalla macchina guardandoci intorno. Non guidavo io, ché la macchinina cambio-automatico, tanto bellina povera cara, me mi fa un certo che guidarla. E questa sìasi premessa fondamentale per gli sviluppi seguenti.
Alle nove attacca il ballo. alle nove e mezza esibizione di due ballerini venetissimi che, insomma. Alle nove e trenta riattacca il ballo. Ritrovo dei cari amici persi un po’ di vista, si fa una parola, si fa un giro di ballo. Piacevole serata. Lo stomachino vuoto si fa sentire, ma soprattutto sete. Si brontolicchia se proseguire la serata, che è ancora giovane, poco più in là, in una milonga alle porte di Padova: sì, no, no sì. No. La macchinina – o-oh – ha i fari accesi: ma porca… (è per questo che ci tenevo alla summenzionata premessa). Naturalmente, appena le chiedi di accendersi, muore inesorabilmente. Mica è la gloriosa Multipla che il giro di chiave spegneva tutto! Sì, dai, avevi il sole in faccia, non hai visto i fari ancora accesi. Avevi fretta, guardavi in giro (come sono conciliante mentre mi si affolla attorno una caterva di angeli e santi e madonne, svegliati nel cuor della notte). La serata, da ancora giovane e piacente, si fa velocemente matura, tendente a vecchia, e anche un po’ baldracca. Se ne sono andati via tutti, non possiamo rimediare un passaggio, non ci sono mezzi di trasporto a quell’ora. Provo a chiamare il servizio della casa giapponese, sapendo già che un meccanico, per fare ponte, mi chiederà duecento euro: e infatti: rispondono subito, ma ringrazio. Andiamo a bere una birra: buona, caspita, belga, ambrata, due patatine, alcolicissima. Chiediamo al giovane barista, ma gli avventori sono tutti giovani, non sanno a momenti cosa siano i cavi. Non li ha nessuno.
Dormiamo in macchina e domattina all’alba cerchiamo un elettrauto? Tiriamo più a lungo possibile, una flebile speranza ci sostiene fino a che si materializza in un omino che corre a casa a prendere i cavi. Mentre spostiamo la macchinina, si fanno sotto dei giovani per aiutarci, si dicono due cose, si mostrano rammaricati di non poter risolvere il problema (le macchine automatiche non le accendi a spinta: volevo informarvi anche di questo). Nei cinque minuti intercorsi tra il “vado a prenderli” dell’omino e il suo ritorno, ho pensato tante cose: che non tornava più, che faceva l’italiano menefotto, in fin dei conti chi siamo noi per, che la moglie lo sequestrava, col cazzo che esci a quest’ora, i cavi, tz, tutte scuse! E invece arriva, uno spunto e via! grazie, o paesino-paesotto dell’hinterland nordestino padovano, che hai ancora gente per strada all’una di notte che chiacchiera, che si ferma sorridente, che, se può, dà una mano, grazie!
Si riparte. Siamo venuti di qua! ti dico che siamo venuti di qua! ma va’ là. ti – dico – che – siamo – venuti – di – qua! Giro a vuoto, e per fortuna. Oh c****, la giacca! Quale giacca? La giacca, l’ho lasciata nel baretto. Con il portafoglio? Sì, tutto, tutto dentro. Complimenti, vivissimi. Spegne il motore! Non ci posso credere: hai spento il motore, oh c****! accendilo! lascialo acceso! Si riaccende, Allah-u-akbar! Mentre si avvia al baretto, altra sveglia per santi angeli arcangeli e madonne: “Che c’è ora, che ti serve?”. Torna, e con la giacca. Si va per dove dico io, con calma, lungo la riviera del Brenta, bella di giorno e di notte: e ridiamo. Rido anch’io, con tutto che a me ‘ste cose mettono sempre un’irritazione che lo prenderei a calci. Ma l’ho sposato per allegria, e per amore, per nient’altro. Non posso non pensare che tutto si risolve, nonostante molte cose ci abbiamo intralciato il cammino e continuino a complicarci penosamente la vita. Chissà che ci siano dei cavi, anche questa volta, da qualche parte, con cui cavarsela. Si chiamano cavi, per quello.
Speriamo che ci hai i cavi
07/07/2014 di lucypestifera
se ci sono quelli dell’aorta, ci sono sempre…